La solitudine dei non amati: la ferita invisibile che solo la terapia può curare

Per il ciclo CinemaTerapia
La solitudine dei non amati: la ferita invisibile che solo la terapia può curare
Scritto da Francesca Guzzo Psicoterapeuta ad orientamento Integrato
Pubblicato il 28/04/2025 in Blog

Riflessioni a partire da "La solitudine dei non amati"
In collaborazione con Wanted Cinema

SAVE THE DATE >>> Mercoledì 30 aprile, ore 21:00
📍 Roma, Cinema Farnese

Noi di Freud saremo in sala con te, con la dott.ssa Francesca Guzzo e il dott. Mauro Lavalle, per un dibattito a fine proiezione.
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Ci sono film che non si guardano. Ti attraversano. Ti strappano via le difese. Ti obbligano a incontrare il buio da cui scappi.
"La solitudine dei non amati" è uno di questi.
Fin dai primi minuti capisci che qui non si fa sconto alla verità: due anime si cercano, si incastrano, si inseguono nella fame disperata di essere viste, riconosciute, abbracciate. Eppure, nel tentativo di amarsi, si perdono.
La solitudine si insinua, silenziosa e devastante, tra le pieghe dei tentativi maldestri di farsi amare.

In una delle scene più intense, Maria sussurra una verità che toglie il respiro:

"Ho avuto paura di rimanere sola con me stessa, che confesso ho odiato tanto, da sempre".


Non è solo una confessione a lui, con la voce che trema, al tavolino di un bar.
È un incontro nudo con sé stessa.
Perché la vera solitudine non nasce quando perdi qualcuno.
Nasce quando non ti sei mai avuto.

 

Cos’è la solitudine dei non amati?

"La solitudine dei non amati" non parla semplicemente della fine di una relazione.
Non racconta solo il vuoto lasciato da chi se ne va. Racconta una ferita antica: quella di chi ha imparato a vivere senza potersi mai appoggiare a un amore sicuro.

È una ferita invisibile, ma viva, che pulsa sotto la pelle e affonda le sue radici nell’infanzia, in quel periodo in cui impariamo chi siamo – e quanto valiamo – attraverso lo sguardo di chi si prende cura di noi.

Come insegna John Bowlby (1969) nella teoria dell'attaccamento, il bambino costruisce la percezione di sé e del mondo sulla base delle cure ricevute. Se quello sguardo – che dovrebbe riflettere amore, accoglienza e coerenza – è assente, imprevedibile o condizionato, nella psiche si insinua un sospetto devastante:

Non sono abbastanza.

 

Abbastanza amabile. Abbastanza importante. Abbastanza degno. Intero.

Cresciamo, allora con una certezza o con una voragine.
Sentendoci di valore oppure sentendoci costantemente inadeguati, rincorrendo l’approvazione, adattandoci ai bisogni degli altri, temendo disperatamente l'abbandono.
La "solitudine dei non amati" è proprio questo: non il semplice stato di essere soli, che può essere persino fertile e necessario, ma l'esperienza interna di non essere mai stati pienamente accolti. È il vuoto lasciato dagli abbracci mancati dalle carezze condizionate, dagli sguardi sfuggenti.

Questa forma di solitudine è patologica perché non si limita al qui e ora. È molto più profonda: è il sentirsi irrimediabilmente soli dentro di sé. È il vivere la solitudine come una conferma della propria inadeguatezza, della propria non amabilità, della certezza di essere – in fondo – abbandonabili.

Non è la solitudine a fare davvero paura.  Non abbiamo paura di stare senza l'altro. Abbiamo paura di restare soli con una parte di noi che non abbiamo mai imparato ad amare: una parte che si sente difettosa, indegna, invisibile.

Soli senza chi, davvero? Senza cosa, quindi?

 

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Come nasce la dipendenza affettiva

La dipendenza affettiva non nasce nella prima storia d’amore. Nasce molto prima, in silenzio. Nasce quando, da bambini il bisogno di amore incontra l'incapacità - umana, inevitabile - degli adulti di rispondervi pienamente. Lì accade qualcosa di invisibile ma devastante: non smettiamo di amare loro, smettiamo di amare noi stessi.
Winnicott (1965) parlava della "madre sufficientemente buona" come di quella figura capace di offrire un contenimento emotivo coerente, uno specchio fedele che permette al bambino di costruire un sé autentico. Ma se la madre – o chi per lei – è assente, incoerente, svalutante o condizionata dalle proprie ferite, il bambino interiorizza messaggi di svalutazione distruttivi:

"Valgo solo se ti rendo felice."
"Esisto solo se ti soddisfo."

 

Così nasce il falso sé: una maschera costruita per sopravvivere.

Nelle relazioni adulte, questa dinamica si ripropone: inseguiamo approvazione, neghiamo noi stessi, soffochiamo i nostri desideri pur di essere visti e accettati.
Dentro, però, la guerra continua: sensi di colpa, perfezionismo, paura di non essere mai abbastanza.

Così si radica la dipendenza affettiva: nel bisogno disperato che qualcuno dall'esterno ci confermi che esistiamo.
Non cerchiamo compagnia o intimità. Cerchiamo salvezza.

Cresciamo rincorrendo amori salvifici che assomigliano alla ferita originaria, nel tentativo di ripararla. Ma è una riparazione impossibile, perché è un vuoto che l’altro non ha creato e che non potrà mai colmare veramente.

 

La teoria dell’attaccamento e i segnali della dipendenza affettiva

Come ci insegnano Bowlby (1980) e Ainsworth et al. (1978), i primi legami plasmano il nostro modo di amare. Se il caregiver primario è emotivamente assente o imprevedibile, si sviluppano stili di attaccamento insicuro:

  • Attaccamento ansioso: paura costante dell’abbandono, bisogno continuo di conferme.
  • Attaccamento evitante: paura dell'intimità, autosufficienza forzata, distacco emotivo.
  • Attaccamento disorganizzato: paura sia della vicinanza che della distanza, confusione relazionale, relazioni intense ma caotiche.

Questi stili non restano confinati all'infanzia, ma diventano copioni inconsci che ripetiamo da adulti nelle relazioni. Non scegliamo, cioè, partner "sbagliati" per caso: siamo inconsciamente attratti da chi riproduce le dinamiche emotive che ci sono familiari, nel disperato tentativo di riparare la ferita originaria.

I segnali invisibili della dipendenza affettiva includono:

  • Paura ossessiva di essere abbandonati.
  • Idealizzazione del partner, anche se tossico.
  • Svalutazione di sé in caso di rifiuto o conflitto.
  • Soppressione dei propri bisogni per mantenere il legame.
  • Relazioni instabili, segnate da ansia e disperazione.
  • Sensazione di vuoto e perdita di senso senza l'altro.

Come sottolineano Norwood (1985), Crittenden (2006) e Liotti (2007), la dipendenza affettiva non è amore.
È sopravvivenza.

Non amo: ho bisogno.
Non desidero: dipendo.

 

In questo cortocircuito, l’amore si trasforma in prigionia invisibile.

 

Perché è così difficile lasciare andare

Le prime relazioni non solo insegnano ad amare: insegnano a esistere. Come spiegano Fonagy e Target (2003) e Schore (2001), determinano quanto possiamo sopportare la separazione e stare con noi stessi senza sentire che stiamo morendo.

"Lascialo/a andare", si sente spesso dire. Come se fosse facile. Come se bastasse volerlo. Chi è cresciuto con un attaccamento disorganizzato (Main & Solomon, 1990) conosce bene il paradosso: l’amore fa paura, ma l’assenza d’amore fa ancora più paura.

La separazione non viene vissuta come un lutto, ma come una catastrofe interna, una minaccia di morte emotiva. Come spiegano Fonagy e Target (2003), Schore (2001) e Main & Solomon (1990), ogni separazione riattiva la ferita, un sistema di allarme antico che si accende da solo: "se mi lasci, io muoio".

Non perdiamo solo l’altro. Perdiamo l’immagine di noi stessi costruita attraverso il suo sguardo. È la dissoluzione dello specchio in cui ci eravamo riconosciuti (Schellenbaum, 1984). Restare soli significa incontrare quella parte fragile che nessuno ci ha insegnato ad amare.

Lasciare andare, allora, non è smettere di amare l’altro. È iniziare ad amare se stessi.

E proprio nel vuoto che si riapre, può nascere la possibilità più rivoluzionaria: ritrovarsi.

 

Il valore della psicoterapia

La psicoterapia è il luogo dove non devi più meritare nulla: non devi essere bravo, funzionare o trattenerti. Puoi crollare. E scoprire che nessuno ti abbandona. È il primo spazio dove puoi semplicemente essere.
Come descrive Johnson (2004), il legame terapeutico offre un’esperienza emozionale correttiva che riscrive la memoria emotiva: uno specchio nuovo in cui ti senti amato per ciò che sei, non per ciò che fai. È una nuova possibilità di attaccamento, dove il messaggio implicito è rivoluzionario:

Non devi essere perfetto per essere amato”.

 

Il terapeuta diventa una presenza affidabile che ti aiuta a reintegrare quelle parti di te che sono state svalutate, ignorate, abbandonate.

La terapia offre già una cura riscrivendo il modello relazionale appreso. Ma negli approcci più profondi si va oltre: si rivive il passato, lo si guarda con occhi nuovi, si trasformano i significati. Ci si chiede: è proprio vero che non siamo stati amati? O non ci siamo sentiti amati? Questo processo riscrive la nostra immagine di noi stessi e dell'amore. Quando non avremo più bisogno di vederci riflessi negli occhi dell'altro per esistere, potremo finalmente scegliere una relazione non per bisogno, ma per piacere. Per amore.

Attraverso la terapia è possibile:

  • esplorare la propria storia relazionale e familiare;
  • riconoscere i copioni che si ripetono;
  • dare voce alle parti tradite e dimenticate;
  • affrontare la paura della solitudine;
  • ricostruire l’autostima dall’interno;
  • sperimentare legami sicuri;
  • radicare la propria esistenza in sé stessi, senza aggrapparsi all’altro per sentirsi vivi.

La terapia non si limita a curare i sintomi. Non si accontenta di spegnere il dolore. Va più in profondità: cura la radice, ricostruisce la storia interiore che abbiamo imparato a raccontarci per sopravvivere.
La vera guarigione non è "lasciare andare" l’altro. È smettere di abbandonare te stesso. È restare con te.

Non morirai senza di lui. Non sparirai senza di lei.
Resterai. E sarai, finalmente, tuo.

 

Conclusione

Guardando "La solitudine dei non amati”, una domanda ci accompagna dall'inizio alla fine:

"Siamo soli senza chi? Di chi sentiamo la mancanza?"  

Forse non del partner. Forse di noi stessi.
Di quel bambino o bambina che un tempo ha imparato a mendicare l'amore, invece di sentirsi degno di riceverlo. "La solitudine dei non amati" non è solo un film. È uno specchio.
E come terapeuti, come esseri umani, non possiamo fare altro che restare davanti a quello specchio. E iniziare a guardarci. E scoprire, finalmente, che non siamo soli. Siamo ancora qui.

Talvolta, la fine di una storia è solo l'inizio. L’inizio di una storia nuova.
La tua.

E proprio lì, dove tutto sembra perdersi, cominci a ritrovarti.

 

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Bibliografia

  • Ainsworth, M. D. S., Blehar, M. C., Waters, E., & Wall, S. (1978). Patterns of attachment: A psychological study of the strange situation. Hillsdale, NJ: Lawrence Erlbaum.
  • Bowlby, J. (1969). Attachment and Loss: Vol. 1. Attachment. New York: Basic Books.
  • Bowlby, J. (1980). Loss: Sadness and Depression. New York: Basic Books.
  • Crittenden, P. M. (2006). A Dynamic-Maturational Model of Attachment. Clinical Child Psychology and Psychiatry, 11(3), 271–291.
  • Fonagy, P., & Target, M. (2003). Psychoanalytic Theories: Perspectives from Developmental Psychopathology. London: Whurr Publishers.
  • Johnson, S. M. (2004). The Practice of Emotionally Focused Couple Therapy: Creating Connection. Brunner-Routledge.
  • Liotti, G. (2007). La dimensione interpersonale della coscienza. Laterza.
  • Schellenbaum, P. (1984). Il no nella crescita. Red Edizioni.
  • Schore, A. N. (2001). The effects of early relational trauma on right brain development, affect regulation, and infant mental health. Infant Mental Health Journal, 22(1-2), 201–269.
  • Winnicott, D. W. (1965). The Maturational Processes and the Facilitating Environment. Hogarth Press.