Feticismo della performance: l’ossessione per il risultato in ogni ambito

freud_blog_feticismo-della-performance-lossessione-per-il-risultato-in-ogni-ambito-1200.png
Scritto da Redazione Freud
Pubblicato il 18/04/2025 in Blog

Ogni cosa che fai deve servire a qualcosa.
Ogni minuto deve produrre valore.
Anche il relax è diventato una voce dell’agenda.
Benvenuto nel feticismo della performance.
Quando vivere non basta più.
Devi performare. Anche mentre ti riposi.

Essere non è abbastanza. Devi eccellere. Sempre.

Non puoi fare sport solo per il piacere.
Devi avere un obiettivo, un piano, un record personale.
Non puoi uscire a camminare. Deve essere cardio.
Non puoi disegnare per svagarti. Deve diventare un progetto.
Non puoi cucinare una torta. Deve essere instagrammabile.

Viviamo in un sistema che ha sacralizzato la performance, e tu — che forse sei brillante, sensibile, pieno di interessi — sei finito in trappola.

La trappola del fare sempre di più. E sempre meglio.
Con l’ansia costante di non fare mai abbastanza.

Cos’è il feticismo della performance?

È un fenomeno psicosociale e individuale in cui il valore personale viene identificato quasi esclusivamente con il rendimento, la produttività e il riconoscimento esterno.

Il termine richiama l’idea di una devozione ossessiva al risultato, al punto da:

  • non riuscire a riposarsi senza colpa;

  • sentirsi vuoti se non si produce qualcosa;

  • trasformare ogni interesse in competizione;

  • misurare il tempo solo in termini di efficienza.

Secondo Han (2017), l’epoca contemporanea ha trasformato l’individuo in un soggetto auto-sfruttato, dove il nemico non è più il padrone, ma l’ideale stesso del sé performante【1】.

I sintomi di chi ne soffre

  • Fatica cronica e senso di inadeguatezza, anche quando si è iperproduttivi.

  • Difficoltà a tollerare la pausa, la noia, l’inattività.

  • Bisogno compulsivo di monitorare, ottimizzare, migliorare (es. con app di produttività, calorie, sonno).

  • Sensazione che “non basta mai”.

  • Ansia anticipatoria legata a progetti, esami, colloqui, perfino hobby.

  • Comparazione continua con chi fa di più.

  • Incapacità di gioire per i successi: ogni traguardo è subito sostituito da un nuovo obiettivo.

Perché è così pervasivo?

Perché è rinforzato ovunque: a scuola, al lavoro, sui social.
Fin da piccoli ci hanno premiato per ciò che facevamo bene, non per chi eravamo.
Ci hanno insegnato a essere “bravi”, “utili”, “competenti”.
Mai semplicemente… presenti.

Oggi, viviamo in un mondo in cui:

  • Il riposo va giustificato.

  • Il silenzio è tempo perso.

  • Ogni esperienza dev’essere monetizzabile, condivisibile, ottimizzabile.

Anche le emozioni diventano strumenti:
se stai male, devi “lavorarci su”.
Se stai bene, devi “farlo fruttare”.

Il corpo ti avvisa prima della mente

Chi vive nel feticismo della performance non si ferma.
Finché è il corpo a farlo per lui.

I segnali più comuni:

  • Insonnia anche se esausti.

  • Ansia costante anche senza minacce reali.

  • Irritabilità e difficoltà di concentrazione.

  • Somatizzazioni (gastrite, tensioni muscolari, mal di testa).

  • Episodi di burnout, apatia, crisi esistenziali improvvise.

Secondo Maslach e Leiter (2016), la sovraesposizione a standard di performance elevati, senza pause e senso di scopo profondo, è una delle cause principali del burnout professionale e personale【2】.

Non è ambizione. È schiavitù camuffata.

Essere ambiziosi è bello.
Ma il feticismo della performance non ti fa crescere. Ti consuma.

Ti illude che, se solo raggiungessi quell'obiettivo in più, allora ti sentiresti finalmente a posto.
Ma quel momento non arriva mai.
Perché la macchina non si spegne.
E non ti premia. Ti dissangua.

Chi sei, se smetti di produrre?

Una delle domande più spaventose per chi vive così è:
Chi sono, se non faccio?

La verità è che non ci hanno mai insegnato a stare in contatto con l’essere.
Solo con il fare.
E quindi, quando ti fermi, senti il vuoto.

Ma non è un vuoto da colmare.
È uno spazio da ascoltare.
Perché lì, c’è tutto ciò che sei — oltre ciò che realizzi.

Come si esce da questa trappola invisibile

  1. Riconosci il modello: chiediti se misuri te stesso solo in base a ciò che produci.

  2. Coltiva l’inutile: attività senza scopo, senza condivisione, senza performance.

  3. Torna al corpo: smetti di trattarlo come una macchina. Ascoltalo.

  4. Smetti di ottimizzare tutto: anche il piacere va lasciato fluire.

  5. Chiedi aiuto: la terapia può aiutarti a disintossicarti dal bisogno di rendere sempre.

Riposo non è assenza di valore. È spazio per tornare a sentirti.

Hai il diritto di non fare.
Di rallentare.
Di essere stanco.
Di non “servire” a qualcosa per meritare di esistere.

Non devi guadagnarti il tuo respiro.

Se vuoi iniziare da qualche parte, inizia da qui.

Su Freud puoi trovare lo psicoterapeuta giusto per te, in modo semplice e sicuro.
Compila il questionario: è il primo passo per ricostruire un’identità che non si basa solo su quanto fai.

Perché tu vali. Anche quando ti fermi.

[Inizia il questionario →]

 

Riferimenti bibliografici

  1. Han, B. C. (2017). La società della stanchezza. Nottetempo.

  2. Maslach, C., & Leiter, M. P. (2016). Understanding the burnout experience: Recent research and its implications for psychiatry. World Psychiatry, 15(2), 103–111. https://doi.org/10.1002/wps.20311