Burnout empatico: il prezzo psichico del prendersi cura degli altri

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Scritto da Redazione Freud
Pubblicato il 14/04/2025 in Blog

Ti sei preso cura di tutti.
Ti sei fatto in quattro, in otto, in mille.
Ora sei svuotato, irritabile, esausto.
Eppure, ti senti in colpa anche solo a pensare di smettere.
Questo non è altruismo. Questo è sfinimento.

Quando “esserci per gli altri” diventa un modo per scomparire

Ci hanno insegnato che prendersi cura è un valore.
Che essere disponibili, presenti, empatici… è una virtù.
E in effetti lo è.
Finché non diventa una condanna.

Se sei una persona empatica, sensibile, attenta al mondo emotivo altrui, forse lo sai bene:
essere disponibili può diventare una trappola.
E il confine tra cura e sacrificio silenzioso può diventare pericolosamente sfocato.

Cos’è il burnout empatico (e perché non se ne parla abbastanza)

Il burnout empatico è una forma di esaurimento psicofisico che colpisce in particolare chi si prende costantemente cura degli altri, sia per lavoro che nella vita privata.

Non è solo stanchezza.
È crollo emotivo. È perdita di sé. È il corpo e la mente che iniziano a spegnersi perché hanno dato troppo, troppo a lungo, senza mai ricevere abbastanza.
E quasi sempre, senza mai chiedere.

Chi ne soffre non è “debole”. È spesso chi ha resistito più degli altri.
Genitori. Insegnanti. Psicoterapeuti. Medici. Caregiver.
Amici che reggono tutti. Compagni che ascoltano tutto. Donne e uomini che non si tirano mai indietro.

Finché si tirano via.

Sintomi silenziosi del burnout empatico

Il burnout empatico si infiltra piano, e spesso viene scambiato per “periodo stressante” o “bisogno di vacanza”.
Ma non passa con un weekend fuori porta.

Ecco i segnali più comuni:

  • Irritabilità costante verso chi prima accoglievi con pazienza.

  • Sensazione di vuoto e distacco emotivo.

  • Sensazione di colpa se non ti rendi utile.

  • Sovraccarico fisico: tensione muscolare, insonnia, emicranie, tachicardia.

  • Anestesia emotiva: sei lì, ma non senti più nulla. Né bello né brutto.

  • Pensieri cinici e disillusi: “Tanto non serve a niente”, “Nessuno fa per me quello che faccio io per gli altri”.

  • Ritiro sociale: vuoi solo che nessuno ti chieda niente. Mai più.

Perché proprio gli empatici?

Perché sentono troppo.
Perché hanno un sesto senso per il dolore degli altri.
E spesso lo mettono davanti al proprio.

Molti empatici sviluppano fin da piccoli il ruolo del “salvatore”, del “mediatore”, del “bravo figlio/a”.
Imparano che l’amore si conquista occupandosi dei bisogni altrui.
E che essere amati equivale a essere indispensabili.

Il risultato?
Una generazione di adulti che non si sente legittimata a ricevere cura.
Solo a darla.

Il lato oscuro dell’altruismo

L’altruismo non è sempre luce.
A volte è fuga.
Fuga da sé.
Fuga dal vuoto che non sai nominare.
Fuga da una ferita che colmi con l'amore degli altri.

Quando aiuti tutti, ma non te stesso, non sei generoso. Sei in pericolo.

Perché nessuno può salvare sempre tutti senza perdersi.

Quando il tuo lavoro è aiutare gli altri

Chi lavora nella relazione d’aiuto lo sa bene:
non basta conoscere la teoria.
Il burnout empatico non guarda i titoli di studio.
Colpisce anche terapeuti, medici, educatori, operatori sociali, infermieri, psicologi.
A volte proprio loro.

Chi sostiene ha bisogno di sostegno.
Chi ascolta ha bisogno di essere ascoltato.
Ma spesso non se lo concede. Perché dovrebbe “saper gestire”.
E invece si svuota. Silenziosamente. Con professionalità.

Il circolo vizioso del burnout

Il burnout empatico non si manifesta tutto insieme.
È progressivo. Subdolo. Cumulativo.
E si autoalimenta.

  1. Dai troppo.

  2. Ti senti esausto.

  3. Ti senti in colpa per essere esausto.

  4. Dai ancora di più per compensare.

  5. Ti svuoti definitivamente.

Risultato?
Ti allontani da chi ami. Ti disconnetti da te stesso.
E magari, per la prima volta, inizi a capire cosa significa davvero “non farcela”.

Romperlo si può (ma serve coraggio)

Guarire dal burnout empatico non significa smettere di essere empatici.
Significa smettere di sacrificarsi per esserlo.

Ecco da dove si inizia:

  • Riconoscere il problema: se ti senti svuotato, non è colpa tua. È un segnale.

  • Rimodulare i confini: dire “no” non ti rende cattivo. Ti rende vivo.

  • Chiedere aiuto: l’empatia deve includere anche te.

  • Lavorare sulle convinzioni: “valgo solo se aiuto”, “non posso deludere”... sono bugie apprese.

  • Tornare al corpo: riprendere contatto con ciò che senti, non solo con ciò che fanno gli altri.

Anche chi aiuta ha diritto a una pausa

Il mondo non si distrugge se ti fermi.
Chi ti ama davvero non smette di farlo se inizi a dire “basta”.
Prendersi cura di sé non è un premio. È una responsabilità.

Se sei il punto di riferimento per tutti, è il momento di esserlo anche per te.

Non aspettare il crollo per legittimare la tua stanchezza

Ti sei sempre preso cura degli altri.
Hai ascoltato, aiutato, supportato, risolto.
Ora ascolta te.

La terapia può essere quel luogo in cui non devi dimostrare niente.
In cui puoi dire “non ce la faccio” senza sentirti un fallimento.
In cui qualcuno si prende cura di te — con competenza, senza pretese, con rispetto.

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